Adeeb Kamal Ad-Deen
Quaranta poesie sulla lettera
a cura di
Asma Gherib
È di recente uscita in Italia, la traduzione di Quaranta
poesie sulla lettera; raccolta poetica del poeta iracheno Adeeb
Kamal Ad-Deen. La raccolta nella sua versione
italiana è stata curata da Asma
Gherib, e pubblicata da Nuova
Ipsa Editore. Il dipinto sulla copertina è di Ayad
Alqaragholli.
Qui troverete, l’indice la premessa della curatrice e alcuni
testi della stessa raccolta:
Indice
Premessa
Noè è arrivato e se n’è andato
Le monete di Gilgamesh
Il navigante solitario
L’uomo velato
Un ballo segreto
Simmetria con la morte
Insieme sopra il letto
Una canzone dal cuore triste
Rosso fuoco
I treni di Sydney
Adesso ti bacio
Scuse
Simmetria con l’alfabeto
L’uovo, il mare e la luna
Un aquilone
Sulla pioggia e sull’amore
Profondità
Luna nera e cane grigio
Il somigliante
Su di te sia la pace Amman!
Letti
I comandamenti
Il lamento della mia lettera
e la supplica del mio punto
Una bambina
Un tiranno
Un viandante
Eri compiaciuto di essere morto
Un cranio
Lo scimpanzé del deserto
Hā’ bā’
Coloquintide
In una lontana primavera
Non era servito a nulla
Una poesia senza titolo
Tu sei tu, e io sono io
Un Paese magico
Tolstoj, amico mio
La caduta dell’alfabeto
e l’ascesa del “punto”
Perché
Pianto
PREMESSA
L’imperatrice e il poeta
Asma Gherib
Non è facile leggere le opere di Adeeb Kamal Ad-Deen e non lo è
neanche tradurle! Bisogna innamorarsi del suo alfabeto e soprattutto imparare,
prima di decidere di tuffarvisi dentro, ad ammirare da lontano le coste e le
onde del suo mare.
Mi avvicinai ai suoi scritti con grande timidezza e grande
stupore e lì incontrai quella bambina edenica, una bambina che emergeva dalle
parole del poeta e mi tendeva la mano invitandomi a giocare, a ridere e a
piangere con lei. E ogni volta, prima di scomparire, mi sussurrava questi versi:
La lettera insignificante
farà scoppiare una guerra altrettanto
insignificante,
una guerra che mangerà il frumento e il latte.
Una volta realizzato questo scopo,
essa costringerà tutte le altre lettere
a essere partecipe di quella sua guerra stupida,
fino a quando non le si sottometteranno
tutti gli alfabeti,
e fino a quando la scrittura non si sarà trasformata
in un delirio gigantesco.[1]
Versi che, a sentirli, accesero dentro il mio cuore e la mia
mente mille interrogazioni: Cosa vorrà da me questa bambina? E perché sul suo
capo vengono fuori i rami di un albero, fatti di zolfo rosso e i cui frutti
generano delle lettere verdi, come il colore dello smeraldo?
Non fu facile neanche rispondere a queste domande. Si trattava
di percorrere un cammino preciso: dal semplice ascolto, passare alla lettura
e dunque alla traduzione! Si! Perché in tutti questi anni
trascorsi a tradurre testi di letteratura araba e italiana ho imparato, tra le
varie cose, che se davvero si vogliono aprire le serrature di un testo che si
preannuncia impossibile sin dal primo rigo, bisogna tradurlo in un’altra lingua,
smembrarlo parte per parte e, a quel punto, non si sarà più
dei semplici traduttori, ma ci si trasformerà in un alchimista. Credo questo sia
l’esatto modo in cui mi sentii quando iniziai
a tradurre Adeeb Kamal Ad-Deen: un alchimista che modellava il fuoco,
l’argento, l’oro e i rubini; cercavo di plasmare quel fuoco che generava lettere
arabe che pensavo di conoscere ma che, in un secondo momento, mi fecero
realizzare la mia assoluta ignoranza!
A quel punto mi interrogai se fosse il caso di riprendere lo
studio dell’alfabeto arabo e ritornare indietro nel tempo, in Marocco, quando
ero ancora una bambina. Forse dovevo solo perseverare con la traduzione perché
comunque avevo percepito che dietro quelle lettere si celava qualcosa di più
sublime, di più forte, qualcosa che dovevo condividere e gustare insieme al
lettore italiano. Ma come sarei riuscita a raccontare a questo lettore qualcosa
che, partendo da lettere, consonanti e vocali arabe trattasse la creazione
dell’uomo, del cosmo, della felicità e della tristezza esistenziale di Caino e
Abele?
Ed ecco apparire di nuovo quella bambina con quegli occhi
spalancati e sorridenti: l’albero di alfabeto è ancora sulla
testa, ma stavolta tiene Due cavalli, uno rosso e uno nero[2]
nella mano destra e Divertente, strano e stupendo
nella sinistra[3].
Lo stupore e l’angoscia aumentano, ma l’angoscia questa volta mi spinse
finalmente ad abbandonare la costa e a tuffarmi dentro il mare dei versi del
poeta, dalle cui profondità riemersi tenendo fra le mani Arba‘ūna qaṣīdatah
‘An al-ḥarf[4],
il titolo dell’opera che in prima analisi tradussi con Quaranta poesie
sull’alfabeto, pensando che il poeta intendesse con il termine ḥarf
[5]
tutte le lettere dell’alfabeto arabo, visto che la sua raccolta cita tutte le
lettere dell’alfabeto. Ma addentratami nella traduzione, mi resi conto che
dietro il termine “ḥarf” c’era qualcosa di più grande e interessante della
semplice banalizzazione del significato dell’alfabeto e mi apparve di nuovo
quella bambina allegra e gioconda, ma questa volta
con un piccolo pennello in mano! Cosa vorrà dirmi stavolta? Suggerirmi di fare
la pittrice? Ma cosa avrei dovuto dipingere? Qualcosa che senz’altro mi avrebbe
portato a risolvere il dilemma del titolo della raccolta, qualcosa che mi
avrebbe aiutato a capire perché Adeeb aveva scelto per il termine “ḥarf” la
traduzione inglese Letter, e perché quando gli parlai in una delle mie
lettere della mia scelta di tradurre “ḥarf” con “Alfabeto”, rispose con un
profondo silenzio, non quel silenzio che conosciamo noi, ma quello degli uomini
sūfī,
riflessivo e precauzionale. La bambina continua a giocare con
quel pennello ed io sono sempre più smarrita, forse dovrò davvero mettermi a
dipingere, a dipingere i testi della raccolta che ho tra
le mani? Decisi dunque di convertire i titoli in
colori e immagini, non è forse vero che il titolo è l’ingresso di un testo, una
chiave per leggere il contenuto? Trasformerò questa chiave in colori, essi mi
aiuteranno a capire cosa vuol comunicare Adeeb Kamal Ad-Deen attraverso il suo
silenzio e in che modo questo suo atteggiamento mi sarebbe servito per scoprire
il mistero del titolo dell’opera. Il risultato è una serie infinita di quadri
dei quali ho scelto i più significativi che vi invito ad esaminare insieme a me
con grande cura.
Il primo titolo che disegnai fu Ğā’a Nūh
wa madà (Noè
è arrivato e se n’è andato). A prima vista questo titolo rimanderebbe a tre
immagini: Noè, il mare e l’arca. Noè sarà disegnato come qualcosa di molto
piccolo, quasi invisibile in mezzo all’immensità delle acque agitate dentro le
quali si dondolava la sua arca. Quindi il quadro sarà più o meno così: Noè è
quel cerchietto che forma un punto, posto al centro dell’arca:
Figura1: Ğā’a Nūh
wa madà
Noè è arrivato e se n’è andato
Andiamo ora a verificare l’altro titolo della seconda poesia
ossia Darāhim Ghilgāmish,
che tradussi con Le monete di Gilgamesh. Quale forma possono avere le
monete di un re, se non quella di piccoli cerchietti d’oro? Il mio disegno
dunque, si presenta così:
Figura2: Darāhim Ghilgāmish
Le monete di Gilgamesh
Il terzo titolo è Al-mubhir
munfaridan, tradotto in italiano con: Il
navigante solitario e rappresentato come segue:
Figura3: Al-mubhir
munfaridan
Il navigante solitario.
Raqsah sirriyyah,
ossia Ballo segreto è il titolo della poesia che, considerato il numero
dei movimenti circolari caldi e appassionati descritti (settanta), che la
ballerina del tempio si accinse a compiere con amore, ho rappresentato così:
Figura 4: Raqsah
sirriyyah
Ballo segreto.
L’ultimo titolo degno di ogni osservazione è Al-baydah
wa al-bahr wa al-qamar,
ossia L’uovo, il mare e la luna rappresentato in questo modo:
Figura 5:
Al-baydah wa al-bahr
wa al-qamar
L’uovo, il mare e la luna.
Ecco terminato il gioco della bambina che portava un albero di
alfabeto sulla propria testa; ed eccomi qui che scopro che tra le cinque figure
illustrate vi sono degli elementi di forte e sorprendente connessione: il
cerchio che, in termini alfabetici, diventa “il punto” o il centro di un’entità
tutta da scoprire; il punto è Noè, le
sette monete di Gilgamesh, la testa del navigante solitario, il luogo da cui e
in cui la ballerina del tempio inizia e chiude il suo ballo circolare[6],
ed è anche l’uovo e la luna, ossia il sole che tramonta ai confini del mare e la
luna al suo fianco, che sta per sorgere. L’altro elemento di unione è il colore
dorato quasi rosso: infatti, dorato è l’uovo, dorate sono le monete di Gilgamesh
e dorato è anche il ballo segreto, durante il quale la ballerina, attraverso gli
giri e il suo amore, accende il tempio del suo corpo sino all’estasi e
l’annientamento. Il terzo elemento altrettanto importante è il mare, luogo di
Purificazione, di Salvezza, di Sapienza ma anche di Dannazione. L’arca di Noè
nella prima figura è la prima testimonianza, ma c’è dell’altro. Se il lettore
conoscesse la lingua araba, noterebbe subito che quell’arca con Noè dentro
simboleggiato da un punto assomiglia ad una delle lettere più importanti
dell’alfabeto arabo: la Nūn, che in arabo si scrive così
ن
ed è sempre la stessa lettera che si ripete nel resto delle
figure ma in forme diverse, persino nella figura con le monete di Gilgamesh, che
a prima vista sembrano solo dei piccoli cerchietti d’oro, e nella figura 5, che
simboleggia una “nūn” capovolta sul mare il cui “punto” è il sole al tramonto e
il mezzo cerchio è la luna che sta per sorgere, solo che questa volta il
semicerchio della “nūn” è capovolto verso il basso e ricorda la famosa lettera
dell’alfabeto sanscrito ङ
con il “punto” sopra, ed è la stessa che
si evolve nella n latina che conosciamo. Se unissimo i due semicerchi,
quello della “nūn” araba e della “n” latina, otterremmo senza dubbio un cerchio
intero con il punto al centro, che in astrologia rappresenta il sole, in
alchimia l’oro. Non a caso Aš-šeikh al-akbar Ibn ‘Arabī[7],
il famoso sūfī detto anche il defunto di
Damasco, più volte nelle sue opere come al-Futūḥāt al-Makkiyyah,
al-mīm wa al-wāw wa an-nūn, e Fuṣūṣ al-ḥikam[8],
affermò che se la “alif”[9]
è la prima lettera dell’alfabeto arabo, la “nūn” è l’ultima
della sua prima metà, facendo riferimento alla prima forma dell’alfabeto detta
abğad[10].
Della “alif” si vede tutto, della “nūn” invece si vede solo il semicerchio e il
punto che compare al centro non è altro che la traccia dell’intero cerchio,
questa stessa “nūn”, se viene collegata alla “Kāf”[11]
ci dà l’imperativo del verbo arabo della Creazione “Kun” ossia “Sii”. Ibn ‘Arabī
collega questa parola alla “al-‘Ilm al-‘īsawī”, ossia “la Scienza di Gesù” detta
diversamente “la Scienza dell’alfabeto”! Cosa intende dunque
Ibn ‘Arabī con questa osservazione? Poiché a Gesù fu dato il potere di soffiare
l’aria che esce dalla cavità del cuore, aria che è il soffio di Dio tramite lo
Spirito Santo, quando quest’aria viene bloccata dalla bocca in un determinato
punto, quel punto diviene una “lettera”, ciò significa la realizzazione del
primo aspetto dell’esistenza divina e del verbo imperativo di Dio -Sii/Kun- nel
cosmo. Ciò spiega in che modo Gesù dava la vita e risuscitava i morti con il
permesso di Dio[12].
Inoltre, la “nūn, è anche simbolo di Salvezza, basta pensare al
profeta Giona, e ai sette dormienti di Efeso.
Giona e la balena - Guazzo su carta - Rašīd ad-Dīn -
Quattrocento circa – Iran
I sette dormienti nella spelonca, manoscritto del XIV secolo
Nel Corano oltre alla sura che porta proprio il nome di Giona,
ve ne sono altre, dove il profeta è chiamato “Dhā an-Nūn” o “Ṣāḥib al-ḥūt”
cioè l’uomo del pesce gigante”[13],
ossia della balena, che a sua volta assume lo stesso valore della nave di Noè[14],
e della caverna dei sette dormienti[15].
Noè, Giona e i sette dormienti sono il “punto”, l’arca, la balena, e la caverna
sono la “Nūn” sia in forma di semicerchio che di cerchio intero.
Resta di grande importanza sottolineare, che, come
questi elementi sono stati considerati simbolo di Salvezza e di rinascita,
possono anche essere ritenuti simbolo di morte e di sepoltura e non in vano il
poeta Adeeb Kamal Ad-Deen, parla spesso nella sua opera della morte considerata
una compagna di vita[16].
Adeeb Kamal Ad-Deen mi fece capire col suo silenzio che dietro
il termine “ḥarf” si celava ben altro rispetto al significato banale
dell’alfabeto di una determinata lingua: si nascondeva un’imperatrice di nome
“Nūn” e un poeta di nome “punto”!
Ecco dunque risolto il dilemma della traduzione del titolo, ed
ecco ripresentarsi quella bambina che, camminando sulle acque di un mare
limpido, m’invita a tuffarmi un’altra volta per raccogliere due gemme
fondamentali nel mio percorso di traduzione di Quaranta poesie sulla lettera:
altre due raccolte dell’autore, Nūn[17]
e an-nuqṭah[18].
Dalla dedica con la quale il poeta introduce la raccolta Nūn,
deduco quanto è grande l’amore che egli nutre per la sua imperatrice: “Al
mio punto e alla mia mezzaluna, per essere rimasto vivo sino ad oggi.”.
Indubbiamente, con “mezzaluna” egli intende la “Nūn”, tanto è vero che il libro
inizia proprio con la citazione del famoso versetto che introduce la sura de
il Calamo, in cui Dio dice: “Nūn, per il Calamo e quel che scrivono!”[19].
Dell’imperatrice che ha infatuato il poeta, Adeeb dice:
“A tutti coloro che non intendono cosa sia la lettera dico:
la Nūn, è una cosa grandiosa,
una cosa difficile da raggiungere,
lei è tutto ciò che mi è rimasto della mia imperatrice,
della mia memoria che una volta dimenticai,
durante un incidente nūnī,
un incidente privo di ogni verità,
e con il nocciolo della verità rovesciato
al contrario.
Penso che ora vi è tutto chiaro,
non chiedetemi allora con grande stupidità
cosa sia il significato della nūn!”[20]
É impossibile non porsi delle domande sull’imperatrice del
poeta, sarebbe come non interrogarsi sul Maestro e il suo novizio, sul grembo e
il suo embrione, sulla culla e il suo neonato, sul semicerchio e il suo punto!
Solo sentirsi inermi davanti alla grande esperienza alfabetica
di, Adeeb Kamal Ad-Deen legittima ogni tipo di ricerca e di navigazione per
intraprendere l’avventura di capire le varie sfumature e le identità delle
lettere del poeta, lettere non soltanto ammantate dal velo della simbologia e
del sufismo musulmano ma anche teatralizzate con una maestria che ci fa
ricordare quella di tre pilastri della letteratura italiana: Gabriele
D’Annunzio, Primo Levi e Luigi Pirandello.[21]
“Stai morendo adesso.
Lo so, che stai morendo adesso, amica mia la lettera,
il tuo “punto”, più pulito della rugiada di una rosa,
non può più supportare tutta quest’afflizione magica,
queste insidie dentro il buio,
e questa solitudine delle sette fruste.
E tu, lettera semplice come me,
smarrita come me
ingenua come me, non ce la fai più a sopportare
la tristezza di questo viaggio,
Per il quale non abbiamo preparato nulla,
delle sue catastrofe infinite,
nessuno ci aveva parlato.
Avevamo aspettato –io e te- a lungo l’arca di Noè,
Noè però, era arrivato e se n’era già andato!
Lo avevamo chiamato a lungo,
con le nostre mani,
con le nostre camicie,
con i nostri vestiti,
e con le nostre lacrime calde.
Lo avevamo chiamato l’anima insanguinata
dal nostro eterno essere orfani,
con la nostra infanzia nuda
e con il nostro sole il cui sapore era cambiato,
le cui dimensioni si erano rimpicciolite
tanto da diventare un piccolo limone appassito.
L’avevamo chiamato con ogni cosa visibile
e invisibile, ma lui non si era accorto di noi,
era buono e pacifico,
era occupato dalla sua arca, da suo figlio e dagli uccelli.
E noi non chiedevamo nient’altro che il soccorso!
Il soccorso!
Sì, amica mia la lettera,
lascia che io e te gridiamo adesso:
A……..I ……. U…..T…..O
forse ci sentirebbe quel brav’uomo
e anche colui che lo inviò
in quella sua strana missione.
lascia che io e te gridiamo, oh buona lettera,
forse egli si accorgerà di noi:
ti prego, non morire adesso!
Guarda, questo pane è per te,
e lo è anche questo sorso d’acqua.
Guarda, questo è il nostro sole sorto un’altra volta,
anche se è piccolo quanto un chicco di grano,
ma è pur sempre sole!
Non arrenderti!
Tieni forte il tuo sogno, anche se è leggero
quanto la polvere!
Ti prego io ancora non ho perso la speranza!
Ti prego
A……..I ……. U…..T…..O!
A……..I ……. U…..T…..O!”[22]
La versione araba della premessa è qui
Quaranta poesie sulla lettera in arabo
I testi scelti per voi sono i seguenti:
Il navigante solitario
المبحر منفردا
(1)
ti combatterà
il pirata rosso,
il pirata che
ha distrutto il trono e l’ha consegnato ai vili,
ti combatterà
perché nel tuo cuore
vi è un’onda
per le lune dell’infanzia.
Ti combatterà
il pirata blu,
il pirata che
mise tutte le cose
dentro il
vortice della morte
dopo che aveva
ucciso i suoi fratelli
e venduto i
suoi figli al mercato degli schiavi,
ti combatterà
perché dentro il tuo cuore
vi è un’onda di
astri.
Ti combatterà
il pirata giallo,
il pirata dei
pazzi, degli ilari
e dei
mangiatori di corpi morti.
Ti combatterà
il pirata nero,
il pirata dei
miscredenti lussuriosi.
E ti combatterà
il pirata del vento,
quello che
cambia direzione
ogni volta che
cambia il vento.
(2)
Sì,
questa è la tua
gloria oh lettera.
Tutti i pirati
sono abili nell’odiarti
perché hai
proposto un punto
come simbolo di
bellezza e amore
e hai tentato
di fondare
– anche se solo
nella fantasia –
un nuovo mare
dove i pirati
non sanno navigare.
Sì,
questa è la tua
gloria,
oh tu che
navighi da sola,
priva di tutto,
eccetto che del tuo punto:
un pezzo di
legno nudo in balia delle onde
per tutta
l’eternità.
Rosso fuoco
أحمر ناري
Avresti potuto
essere molto più ricca,
molto più bella
e allegra,
se solo avessi
permesso al passero,
che volava
dietro la finestra
con lacrime
negli occhi
e con ali
innocenti,
di volare anche
sopra il tuo
letto nudo.
E potevi essere
più azzurra di un cielo
e avere più
lune,
se mi avessi
permesso
di avvicinarmi
alla tua nuvola appetitosa,
affinché io
potessi prostrarmi con follia certa
al tuo Eufrate
segreto, che mi aveva stregato
per tutta una
vita.
Esso mi aveva
buttato nel più lontano posto della Terra,
riducendomi a
una lettera che acquisisce un senso
solo quando si
presta a raccontare la tua leggenda appesa nelle cime,
e in un punto
che non conosce
se non le
canzoni dell’amore rosso fuoco,
intendo il
rosso posseduto
dalla passione
e dal delirio.
Tu però
hai scelto di
consegnare il tuo Eufrate segreto
e i granai del
tuo orzo dorato
alla maschera
nascosta sotto il ruolo
di un corvo
marito,
intendo al
corvo mascherato da marito
intendo il
marito mascherato da corvo
che sa solo
divorare la tua carne burrosa
senza pietà
e spingerti,
piano piano,
verso la
secchezza delle sorgenti,
anzi verso il
pozzo nero
e verso il tuo
dito
che vidi un
giorno piangere
il dolore del
piacere
e la canzone
della privazione.
Il lamento della mia lettera e la supplica del
mio punto
أنين حرفي وتوسّل نقطتي
Dio,
ti ho amato più
di quanto i profeti
e i tuoi amici
ti abbiano mai amato,
loro ti amarono
perché li affascinasti
con i miracoli
del fuoco e della luce,
io invece ti
amai perché sei il mio inizio e la mia fine,
sei il mio
essere esteriore e il mio essere interiore,
perché sei il
mio unico tetto che mi protegge
dalla pioggia,
dalla fame e dai fulmini,
dalla
solitudine, dalla fuga della terra e della memoria.
E perché sei
l’unico che sente il mio pianto ogni notte,
senza stancarsi
dei lamenti del mio alfabeto
e delle
suppliche del mio punto.
[1]
Adeeb Kamal Ad-Deen, Arba‘ūna qaṣīdatah ‘An
al-ḥarf, Dār Azminah, Amman, 1ªed. 2009. p.g. 75.
[2]
Poesia che tradussi nel 2006 ed è tratta dalla
raccolta poetica di Adeeb Kamal Ad-Deen intitolata Mā qabla al-hqrf
mā ba‘da an-nuqtah,
edita da Dār Azminah, Amman, 1ªed. 2006. P.g. 90.
[3]
La traduzione della poesia è stata da me curata
nel 2006. Nel 2009, è entrata a far parte dell’antologia di poesia
araba, pubblicata sul sito della casa editrice Clepsydra (http://www.clepsydraedizioni.com/?p=165),
in collaborazione con la rivista culturale e letteraria “Nostalgia”
http://643768966491021667.weebly.com/)/(http://issuu.com/clepsydraedizioni/docs/poesiaaraba/1.
Il testo inoltre è tratto da Šağrat al-ḥrūf, Dār Azminah, Amman,
1ªed. 2007. P.g. 69.
[4]
Adeeb Kamal Ad-Deen, Arba‘ūna qaṣīdatah ‘An
al-ḥarf, Dār Azminah, Amman, 1ªed. 2009. Si tratta dell’opera
oggetto della mia traduzione.
[5]
“Lettera” è la traduzione approssimativa di “ḥarf
“, ma non è la traduzione scontata, tanto è vero che quando alcuni
lessicografi italiani decisero di dare una definizione al termine,
concordarono all’unanimità di affermare che la “lettera” è un “carattere
dell’alfabeto convenuto tra gli uomini per intendersi”, oppure “un segno
scritto di suono consonantico o vocalico”. I loro colleghi arabi, Ibn
Manzūr ad esempio, nel suo noto dizionario lisān al-‘arab, sotto
la voce “harf” scrive che questo
termine può indicare il lembo o l’estremità di una cosa. Afferma inoltre
che vi è un hadīth narrato dal
profeta Muhammad (S.
‘A. W. S) dove egli disse: “il Corano è stato
rivelato secondo sette hurūf”
voleva dire sette lingue. “Harf”,
indica anche una cammella magrissima e la figura retorica fa riferimento
alla snellezza della “alif”, prima lettera dell’alfabeto arabo, che
somiglia ad uno stecchino lungo, sottile e verticale. Al-Fairūz Ābādī ,
nel suo noto dizionario al-Qāmūs al-Muhīt,
mette in risalto il termine “harf”
e afferma che esso vuol dire un elemento dell’alfabeto arabo.
[6]
Cfr. gli ultimi sei versi della seconda parte di Un ballo segreto,
Adeeb Kamal Ad-Deen, Arba‘ūna qaṣīdatah ‘An al-ḥarf, Dār
Azminah, Amman, 1ªed. 2009. p.g. 20.
[7]
Nato il 1165 in Andalusia, discendente di una
famiglia pia e ricca, composta da molti uomini ṣūfī, nei suoi primi
anni di giovinezza era appassionato di letteratura e di caccia, fin
quando si sposò con la nobile Maryam Bint Muhạmmad Ibn ‘Abdūn, una
donna mistica. Questo matrimonio cambiò la sua vita e lo portò insieme
ad altri eventi (come la morte di suo padre) sul sentiero del ṣufismo e
ad intraprendere dei lunghi viaggi in diverse parti del mondo: Tunisia,
Marocco, Algeria, Iraq, Arabia Saudita e infine in Siria, dove si
stabilì definitivamente a Damasco e ivi morì nel 1240, lasciando un
patrimonio mistico composto da quasi quattrocento libri. ‘Abd Al-Rahīm
Mardīnī, Lo šeikh Muḥyī Ad-Dīn Ibn
‘Arabī Dār Al-Maḥabbah, Damasco, 2001, pgg
5-23.
[8]
Ibn ‘Arabī, al-Futūḥāt al-Makkiyyah, a
cura di ‘Uthmān Yaḥyà, e Ibrāhīm Madkūr, Il consiglio supremo della
cultura in collaboarzione con l’Istituto degli studi superiori della
Sorbona, Egitto, 1985/ al-Mīm wa al-wāw wa an-nūn,
a cura di ‘Abd ar-Raḥīm al-Mārdīnī, Dār Āyah, Beirut 2002/ e
Fuṣūṣ al-ḥikam a cura di Abū al-‘Alā’ ‘Afīfī, Dār al-Kitāb
al-‘Arabī, Beirut (senza data di edizione).
[9]
La alif è la prima lettera dell'alfabeto arabo.
Corrisponde ad un semplice tratto verticale; il suo valore numerico
secondo la numerazione abğad è 1. A differenza delle altre 27 lettere
dell'alfabeto arabo, l'alif non corrisponde ad un suono consonantico, ma
è un segno che viene impiegato in diversi usi, tra cui quello di indice
di lunghezza della vocale a, oppure come "sostegno" della hamza.
[10]
Indica le sei parole che componevano l’alfabeto
arabo, che elenco come segue:
Abğad, Hawwaz, Huttay,
Kalamun, Sa‘fas, Qarashit. A queste
parole gli arabi hanno aggiunto negli anni altre due parole: Thakhadha,
Dazgh.
Nei paesi del Maghreb (Africa settentrionale), l’ordine di questi
termini cambia.
A
queste parole corrisponde una tabella numerica che gli arabi hanno
stabilito dando a ogni lettera un numero specifico, che a sua volta
cambia dall’oriente all’occidente arabo: (si prega di consultare le
tabelle nell’indice).
In al-Qāmūs al-Muhīt, al-Fairūz
Ābādī, sotto la voce di “Hağā”, dice che “al-hiğā’iyyah”, deriva dal
verbo trilittero “Hağā”, e vuol dire leggere, in un altro passo,
riguardando sempre lo stesso termine, Ibn Manzūr, in Lisān al-‘arab,
dice, che il termine, fa riferimento alla lettura sillabata delle
parole.
[11]
È la ventiduesima lettera dell'alfabeto arabo,
foneticamente corrisponde all’occlusiva velare sorda (k). Per questo
motivo è assimilabile alla “c” dura dell'alfabeto latino (ad esempio la
c in casa).
[12]“Come
il Padre risuscita i morti e li vivifica, così anche il Figlio vivifica
chi Egli vuole…
Come, infatti, il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche
al Figlio di avere la vita in se stesso, e gli ha
dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non
meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei
sepolcri udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una
risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di
condanna.
Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il
mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di
colui che mi ha mandato.” Giov:5/
21- 29. La Sacra Bibbia, Società Biblica, 5ªed.1999. Pg. 1055. / “E
quando Iddio disse: “ O Gesù figlio di Maria, ricorda il mio favore
verso di te e verso la madre tua, quando io ti confermai con lo Spirito
Santo, e tu parlavi alla gente dalla culla come un adulto, e quando ti
insegnai il Libro e la Sapienza e la Tōrāh e dell’Evangelo, e quando
plasmavi dal fango come una figura d’uccello, col Mio permesso, e quando
tu guaristi il cieco nato e il lebbroso, col Mio permesso, e quando
risuscitavi i morti, col Mio permesso.” Il Corano, La
sura della Mensa, Versetto 110.
[13]
al-Fairūz Ābādī , in al-Qāmūs al-Muhīt
dice che “nūn” in lingua araba, ha più di un significato, essa oltre ad
essere intesa come una delle varie lettere dell’alfabeto arabo, è anche
il nome della balena, del calamaio, del tirabaci che si può trovare nel
mento di un bambino, e di un tipo particolare di una spada a forma di
pesce lungo.
[14]
Giona come Noè è il simbolo della Salvezza, della
Misericordia e della Clemenza di Dio. Il Signore dice a Giona: “Va’a
Ninive, rimprovera ai suoi abitanti la loro iniquità e poi ritorna a
Me”. Giona si alza, e invece di obbedire fugge lontano da Dio, in
direzione opposta a Ninive verso Tarsis, nella Spagna meridionale,
allora estremo limite della navigazione mediterranea. Giona si vedeva
sminuito nella sua dignità profetica, essendo stato egli trasferito
presso i pagani in Assira, a Ninive! Giona, discepolo di Elia, sapeva
che Dio è onnipresente, ma pensava che, in virtù del Patto stipulato con
Abramo, non sarebbe mai intervenuto fuori della Giudea. Egli pensava
che, una volta fuori della Giudea, Dio lo avrebbe lasciato in pace, ma
accadde il contrario, una volta era sulla nave insieme ai passeggeri
tutti pagani, Dio fa sollevare una grande tempesta. Tutti i passeggeri,
furono presi dal panico, mentre solo Giona restava indifferente, poiché,
tormentato dal rimorso di aver disobbedito a Dio, era noncurante di ciò
che succedeva attorno a lui e per la tristezza si
addormentò. I pagani pensarono che quella tempesta era l’effetto
dell’ira della Divinità offesa e tirarono a sorte per sapere chi fosse
il colpevole. La sorte cadde più di una volta su Giona. I marinai gli
chiesero che cosa dovessero fare per calmare la collera di Dio, ed egli
rispose: “prendetemi e gettatemi in mare. Infatti so che è a causa del
mio peccato che la tempesta si è sollevata”. I marinai,
pur se addolorati, lo gettarono in mare, che immediatamente si calmò e
una balena inghiottì il profeta. Giona, nel ventre della balena, prega
Dio, gli chiede perdono e promette di fare la sua volontà. Dio allora
comanda alla balena di “sputare” Giona sulla riva del mare. Giona,
questa volta, si reca a Ninive e predica la penitenza per i peccati che
vi si commettono. e durante la sua “marcia” non cessava di gridare:
“Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”. I Niniviti,
impressionati sia dal messaggio, che dalla gravità del messaggero, si
pentirono e fecero penitenza dei loro peccati e credettero insieme al
loro re in Dio. Giona, dopo aver terminato la sua
missione di tre giorni, scappa da Ninive, ha paura di essere distrutto
assieme ad essa, si rifugia su una collina abbastanza, ma non troppo,
lontana per vedere al sicuro il castigo della città. Passano quaranta
giorni e Ninive non è distrutta. Allora Giona si rattrista e si
incollerisce, teme di fare la figura del falso profeta. Giona sapeva
bene che Dio è misericordioso, ed è proprio per
questo che non voleva andare a Ninive, per paura che, qualora si fosse
pentita, Dio l’avrebbe perdonata e lui avrebbe fatto una brutta figura,
come egli stesso spiega a Dio.
Il profeta ha paura delle umiliazioni, e chiede a Dio di farlo morire.
Dio, allora, gli dà una piccola lezione: fa nascere un albero di ricino
che lo ripari dal sole; in una sola notte spunta e diventa alto e
frondoso, in modo da poter far ombra al profeta che lo apprezza
grandemente; però il giorno dopo, Dio manda un verme che, rodendo le
radici dell’arbusto, lo fa seccare. Il sole sorge implacabile, un vento
di scirocco caldo comincia a soffiare e rende l’aria insopportabile.
Giona ne è talmente “sciroccato” che di nuovo comincia a pregar Dio di
ritirarselo da questo brutto mondo. Dio lo interroga: “Credi che tu
possa indignarti perché un alberello si è seccato?”. Il profeta risponde
di sì. Dio lo rimprovera dicendogli: “Tu sei in collera perché un
alberello che è nato in una notte, senza alcuna tua fatica, è seccato in
un giorno. E tu vorresti che Io assista, indifferente,
alla distruzione di questa enorme città con i suoi abitanti che si son
pentiti?” Le sue coraniche, dove si parla di Giona proprio con il suo
vero nome sono le seguenti: La sura delle Donne, versetto 163/ dei
Greggi, Versetto 86/ di Giona, Versetto 98/ degli Angeli a schiere,
versetto 139. Le sure invece in cui il profeta è stato citato con
l’attributo, dell’uomo del pesce gigante o
dhā al-nūn sono: la sura del Calamo, versetto 48/ e la sura dei profeti,
Versetto 87.
[15]
La vicenda leggendaria dei Sette dormienti è
narrata principalmente nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze,
da Gregorio di Tours e da Paolo Diacono nella sua "Historia
Langobardorum".
Si narra che durante la persecuzione cristiana dell'imperatore Decio
(250 circa) sette giovani cristiani di Efeso furono chiamati davanti ad
un tribunale a causa della loro fede. Essi, rifiutando di sacrificare
agli idoli pagani, furono condannati ma momentaneamente rilasciati. Per
evitare nuovamente l'arresto si nascosero in una grotta sul monte
Celion, dalla quale uno di essi, Malco, vestito da mendicante, andava
e veniva per procurare il cibo. Scoperti, vennero murati
vivi nella grotta stessa. I sette giovani si addormentarono nella loro
prigione nell'attesa della morte. Furono risvegliati da un gruppo di
muratori che, sfondata la parete, volevano costruire un ovile. Erano
passati duecento anni: Malco, tornato ad Efeso, scoprì con stupore che
il Cristianesimo non solo era ormai tollerato, ma era divenuto persino
la religione dell'Impero. Il giovane, scambiato dapprima per pazzo,
venne poi creduto quando il vescovo e i cittadini salirono alla grotta
avvalorando il racconto. I sette giovani costituirono viva testimonianza
della resurrezione dei corpi; perirono lo stesso giorno del loro
risveglio e furono in seguito sepolti, per ordine dell'imperatore
Teodosio II, in una tomba ricoperta di pietre dorate.
La tradizione dei dormienti non è esclusiva del mondo cristiano. Anche
nell'Islam essa ha un ruolo centrale, essendo il racconto che dà il
titolo a una sura del Corano, la diciottesima, detta per l'appunto "sura
della caverna". La sura, tra le più rilevanti anche per il lettore non
musulmano, contiene altri due importanti nuclei narrativi: uno dedicato
al profeta (al-Khiḍr) e una ad (Dhū al-Qarnayn).
«
E li avresti creduti svegli, mentre invece dormivano, e li voltavamo sul
lato destro e sul sinistro, mentre il loro cane era accucciato con le
zampe distese, sulla soglia. [...] Rimasero dunque nella loro caverna
trecento anni, ai quali ne aggiunsero nove».(Corano, XVIII. 18, 25).
Riguardo il numero dei dormienti, il Corano non dà
indicazioni precise:
«Diranno alcuni: "Erano tre, e quattro col cane". Altri: "Cinque erano,
e sei col cane". Altri ancora: "Sette, e otto col cane". Rispondi: "Il
mio Signore sa meglio qual fosse il loro numero; non lo conoscono che
pochi" » (Corano, XVIII. 22)
[16]
Si prega di leggere ad esempio i testi seguenti
della raccolta: Noè è arrivato e se ne andato, Le monete di
Gilgamesh, Simmetria con la morte, Insieme sopra il letto,
Eri compiaciuto dalla tua morte.
[17]
Adeeb Kamal Ad-Deen, Nūn, Maṭba‘at
al-Ğāḥiẓ, Bagdad, 1993.
[18]
Adeeb Kamal Ad-Deen, an-nuqṭah,
Maṭba‘at al-Ğāḥiẓ, Bagdad 1ªed. 1999.
Al-mu’assasah al-‘arabiyya li ad-dirāsāt wa an-našr, Amman, 2ªed. 2001.
[19]
Queste parole sono anche chiamate introduttive,
si trovano in ventinove sure del Corano, numero che corrisponde a quello
delle lettere dell’alfabeto arabo, considerando la hamzah come una
lettera a se stante. Si scopre, grazie ad una profonda e acuta
osservazione della scrittura sacra del Corano, che il numero di queste
lettere introduttive è quattordici, esattamente la metà delle lettere
dell’alfabeto arabo, considerando in questo caso la hamzah e l’alif come
un’unica lettera.
[20]
Adeeb Kamal Ad-Deen , Nūn, Maṭba‘at
al-Ğāḥiẓ, Bagdad, 1993. Pg. 4.
[21]
Per maggiori dettagli a tal proposito, si rimanda
alla sua nota opera poetica intitolata Ğīm edita
a Bagdad nel 1998 da Dār aš-Šu’ūn
ath-thaqāfiyyah al-‘āmmah, e al suo articolo “Luigi Pirandello e la
teatralizzazione del dolore”, pubblicato in lingua araba sul suo sito
ufficiale.
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